Pronunciandosi su un caso “bulgaro”, in cui si discuteva della legittimità della condanna inflitta in sede penale a due cittadini bulgari per aver tentato di costituire un partito politico su base religiosa, a tutela della minoranza turca residente in Bulgaria, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto, sebbene a maggioranza (sei volto contro uno), violato l’art. 11 (diritto alla libertà di riunione e di associazione) della CEDU. Il caso era stato originato dalla denuncia di due ricorrenti che si dolevano dei procedimenti penali avviati a loro carico per aver tentato di costituire un partito politico su base religiosa. Gli stessi si erano lamentati dell’ingiustificata interferenza con il loro diritto alla libertà di associazione e anche di atteggiamento discriminatorio nei loro confronti. La Corte di Strasburgo (sentenza 3 settembre 2020 n. 11157/11) ha sottolineato che la condanna penale rappresenta una delle forme più gravi di interferenza con il diritto alla libertà di associazione, uno dei cui obiettivi era la tutela delle opinioni e della libertà di esprimerle, soprattutto per quanto riguarda i partiti politici. I ricorrenti non avevano completato la procedura richiesta per registrare il partito politico. La conseguenza giuridica di tale inadempienza era che il partito politico non poteva esistere nè intraprendere alcuna attività. L’obiettivo delle autorità – garantire la pacifica coesistenza di gruppi etnici e religiosi in Bulgaria – avrebbe potuto quindi essere soddisfatto attraverso una diversa procedura, in questo caso rifiutandosi di registrare l’aspirante partito politico. La Corte EDU ha inoltre osservato che le autorità avrebbero potuto sciogliere il partito se lo stesso fosse stato dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale. Non ha, dunque, trovato alcuna ragione giustificativa per cui, in base alle circostanze del caso, si sarebbe dovuto avviare un procedimento penale contro i ricorrenti.
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