Pronunciandosi sul ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la decisione del tribunale che aveva condannato un imputato per il reato di minaccia a pubblico ufficiale, in particolare per aver minacciato un agente della polizia penitenziaria in servizio presso un carcere, utilizzando espressioni evocative della sua appartenenza alla criminalità organizzata, la Corte di Cassazione – nell’accogliere la tesi difensiva, secondo cui erroneamente era stata contestata l’aggravante del metodo mafioso, non avendo l’imputato mai fatto riferimento ad un suo presunto ruolo nell’ambito di ambienti malavitosi, né tantomeno al potere di qualsivoglia sodalizio criminale (sentenza 8 ottobre 2020, n. 28112) – ha infatti affermato che la sussistenza della circostanza aggravante del metodo mafioso non può essere evinta dal richiamo alla posizione di spicco della malavita e dalla potenzialità criminale delle sue minacce, le quali, pur connotate da un’indubbia valenza intimidatoria, non possono di per sé sole dirsi oggettivamente idonee ad esercitare una coartazione psicologica sulle persone avente i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale, potendo – in ipotesi – costituire il frutto di una, certamente deprecabile, esplosione d’ira, non supportata da alcuna intenzione di conferire colorazione mafiosa alla minaccia.