Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui il tribunale, nel confermare la sentenza di primo grado emessa dal giudice di pace, aveva condannato per il reato di diffamazione un funzionario del Nucleo Ispettorato del Lavoro che, nel corso di un colloquio informativo con un lavoratore, aveva offeso il decoro e la reputazione del datore di lavoro al quale si riferiva affermando che fosse una “testa di c. “, alla presenza di altre due persone, la Corte di Cassazione (sentenza 7 maggio 2020, n. 14005) – nel disattendere la tesi difensiva, secondo cui assente era il contenuto diffamatorio nelle parole incriminate, espressive solo di un giudizio critico, pur formulato con parole colorite, tuttavia, di uso comune, con cui si tendeva a stigmatizzate il comportamento datoriale di strumentalizzazione del dipendente – ha diversamente affermato che l’espressione utilizzata per qualificare la persona offesa non poteva ritenersi priva di contenuto lesivo, in quanto non era ravvisabile il requisito della continenza espressiva, laddove, anzi, le parole pronunciate risultavano, oggettivamente, pregiudizievoli della reputazione della persona offesa, perché oggettivamente dirette a screditarla sia professionalmente che nella sua vita di relazione sociale.
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