Pronunciandosi sul ricorso proposto avverso la ordinanza con cui il tribunale del riesame, nel respingere l’appello cautelare presentato nell’interesse di un uomo contro l’ordinanza con la quale il GUP aveva a sua volta rigettato la richiesta di sostituzione della misura cautelare applicatagli per il reato di stalking (il divieto di dimora in un determinato Comune) con altra meno afflittiva, la Corte di Cassazione (sentenza 17 settembre 2020, n. 26222) – nel disattendere, per quanto qui di interesse, la tesi difensiva, secondo cui il giudice della cautela avrebbe replicato l’errore di “ultrapetizione” già commesso dal GIP quando aveva applicato all’indagato il divieto di dimora nello stesso Comune, perché tale misura recava in sé anche l’ulteriore aggravio dell’impossibilità di accedere alla propria abitazione – ha infatti affermato che non incorre in alcun vizio di ultrapetizione né viola l’art. 291, c.p.p., il giudice che, applicando ad un indagato la misura cautelare del divieto di dimora in un determinato Comune in cui egli ha anche la propria abitazione, impedisca allo stesso, quale conseguenza naturale della misura, anche di accedervi, ciò in quanto tale vizio è ravvisabile solo nel caos in cui il giudice della cautela applichi una misura cautelare più grave di quella richiesta dal PM.
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