Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la condanna inflitta in primo grado ad un soggetto per avere coltivato piante di canapa indiana e detenuto 85 grammi di marijuana, la Corte di Cassazione (sentenza 4 febbraio 2020, n. 4666) – nel disattendere la tesi difensiva secondo cui i giudici avrebbero errato nel non aver riconosciuto la detenzione della sostanza per uso personale – ha, infatti, affermato che, a seguito della recente sentenza delle Sezioni Unite intervenuta in data 19 dicembre 2019, il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente. Devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore.
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