Pronunciandosi su un caso “croato”, in cui si discuteva della denuncia presentata da una donna in cui la stessa aveva affermato di essere stata vittima del reato di tratta di esseri umani e di prostituzione forzata, la Corte EDU, nel confermare la sentenza resa il 18 luglio 2018 dalla Prima sezione della Corte EDU, poi approdata alla Grande Camera su richiesta del Governo, ha ritenuto violato l’art. 4 della Convenzione EDU (Proibizione della schiavitù e del lavoro forzato). In particolare, la Corte (sentenza 25 giugno 2020, n. 60561/14) ha colto l’occasione per chiarire la propria giurisprudenza sulla tratta esseri umani a scopo di prostituzione, indicando in particolare di rifarsi alla definizione data dal diritto internazionale per decidere se una condotta o una situazione di tratta di esseri umani ai sensi dell’articolo 4 della Convenzione EDU può qualificarsi come tale, e quindi per determinare se questa disposizione può applicarsi alle circostanze particolari di un caso. La Corte ha inoltre chiarito che la nozione di “lavoro forzato o obbligatorio” ai sensi dell’articolo 4 della Convenzione mira a fornire protezione contro i casi di grave sfruttamento, come i casi di prostituzione forzata, indipendentemente dal fatto, nelle circostanze particolari della causa, che gli stessi potrebbero o meno essersi verificati nel contesto specifico di una tratta di esseri umani. La Corte EDU ha concluso che l’articolo 4 doveva essere applicato nel caso della ricorrente perché si può considerare che determinate caratteristiche della tratta e della prostituzione coatta, come l’abuso di potere su una persona vulnerabile, la coercizione, l’inganno e la sistemazione, erano presenti nel caso in esame. In particolare, il presunto autore era un agente di polizia mentre la ricorrente era una bambina data in affido dall’età di dieci anni; inoltre, l’uomo l’aveva contattata su Facebook e le aveva fatto credere che l’avrebbe aiutata a trovare un lavoro. Invece, aveva organizzato per lei la prestazione di servizi sessuali all’interno dell’appartamento che aveva affittato o presso i clienti a cui l’aveva condotta. In questa situazione, i Giudici europei dei diritti umani hanno riconosciuto che le autorità giudiziarie croate erano tenute ad avviare un’indagine in conseguenze delle denunce della ricorrente. Diversamente, non avevano seguito tutte le piste di indagine, anche quelle più ovvie, inclusa anche la mancata audizione di tutti i possibili testimoni. Dunque, il procedimento giudiziario era diventato in sostanza un mero confronto tra la parola della ricorrente e quella del presunto autore. Tali carenze per la CEDU hanno sostanzialmente minato la capacità delle autorità nazionali di identificare la vera natura della relazione tra la ricorrente e il presunto autore e di stabilire se questi avesse effettivamente sfruttato la donna.