Pronunciandosi sul ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello, confermando quella di primo grado, aveva condannato una donna per il reato di maltrattamenti posti in essere ai danni della propria figlia, la Corte di Cassazione (sentenza 19 giugno 2020, n. 18574) – nel disattendere la tesi difensiva, secondo cui erroneamente era stata ritenuta sussistere la responsabilità penale della donna per il delitto di cui all’art. 572, c.p., non essendovi in atti elementi per pervenire con certezza ad un’affermazione di colpevolezza – ha invece rilevato che la condotta “maltrattante” ben può essere costituita da ingiurie e umiliazioni ripetute e costanti (nella specie, i testi avevano riferito che la ragazza veniva trattata come “una pezza”), ma anche in atteggiamenti prevaricatori o di privazione (nella specie, vi era il divieto per la ragazza di andare a scuola o di frequentare le amiche o anche di uscire di casa da sola, inoltre le erano stati anche cancellati i numeri di telefono delle amiche, per evitare contatti e la stessa veniva anche frequentemente percossa per futili motivi), tali da provocare una condizione di sofferenza.
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