Nella pronuncia n. 20884/2020 in commento la Corte di cassazione, affrontando nuovamente il tema della accoglibilità della richiesta di riparazione del danno per ingiusta detenzione nei casi di dichiarazioni mendaci da parte dell’imputato, ha ribadito il principio consolidato e fatto proprio anche dal suo supremo consesso (id est Cass. pen. Sez. Un. n. 34559 del 15/10/2002), secondo cui il giudice di merito, per valutare se chi ha patito una detenzione ingiusta vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito motivazione, la quale, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità. Il giudice della riparazione, infatti, deve fondare la deliberazione conclusiva su fatti concreti e precisi e non su mere supposizioni, esaminando la condotta tenuta dal richiedente sia prima, sia dopo la perdita della libertà personale, indipendentemente dall’eventuale conoscenza, che quest’ultimo abbia avuto, dell’inizio dell’attività di indagine, al fine di stabilire, con valutazione prognostica, non già se tale condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato o concorso a ingenerare (in presenza di errore dell’autorità procedente) la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa-effetto. Altro principio di diritto ribadito dal Giudice della nomofilachia è quello secondo il quale in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, ai fini della valutazione circa la sussistenza del dolo o della colpa grave che ostano alla riparazione, il giudice può tener conto degli atti che nell’ambito del giudizio di cognizione sono risultati inficiati da inutilizzabilità meramente “fisiologica”.
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