Pronunciandosi su un caso “islandese” in cui si discuteva della legittimità della decisione delle autorità giudiziarie di confermare la sanzione di seimila euro inflitta a due avvocati per la condotta di “oltraggio alla corte”, la Grande Camera della Corte EDU, ha ritenuto, sebbene a maggioranza (sentenza 22 dicembre 2020, nn. 68273/14 e 68271/14), che i ricorsi erano incompatibili “ratione materiae” con le disposizioni della Convenzione europea dei diritti umani, ed ha dichiarato inammissibili le doglianze dei ricorrenti. Il caso, come anticipato, era stato originato dalle denunce di due avvocati che erano stati condannati in contumacia da un tribunale distrettuale al pagamento di una sanzione pecuniaria di seimila euro per oltraggio alla corte, in quanto avevano abbandonato la difesa d’ufficio loro conferita per due imputati in un processo penale. Nonostante il rigetto del tribunale distrettuale dell’istanza di essere revocati nel loro mandato defensionale, i due ricorrenti non avevano assicurato la partecipazione all’udienza in rappresentanza dei loro assistiti. Il tribunale distrettuale aveva ritenuto che quanto accaduto aveva causato intenzionalmente un indebito ritardo nell’esame del caso. Dinanzi alla Corte EDU, i ricorrenti avevano sostenuto che vi era stata una violazione dei loro diritti, tutelati, anzitutto, dall’ambito penale dell’articolo 6 (diritto a un equo processo) della Convenzione europea dei diritti umani, considerato che il procedimento avviato nei loro confronti riguardava una “accusa penale”, e, inoltre, dall’art. 7 (nulla poena sine lege), della medesima Convenzione, in quanto erano stati condannati per un illecito che non costituiva un reato ai sensi del diritto nazionale e che la sanzione loro inflitta non era stata prevedibile. La Corte EDU ha ritenuto che gli articoli 6 e 7 della Convenzione non fossero applicabili nel caso di specie, poiché il procedimento svoltosi nei loro confronti non riguardava una “accusa penale” ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione, e che le sanzioni pecuniarie inflitte non potevano essere considerate come una “pena” in base al significato dell’articolo 7 della Convenzione. I ricorsi sono stati quindi dichiarati inammissibili. La Corte di Strasburgo ha osservato, in particolare, che la condotta attribuita ai due avvocati non poteva essere sanzionata con la reclusione, che le ammende inflitte non potevano essere convertite con la privazione della libertà personale in caso di mancato pagamento, e che le sanzioni non erano state iscritte nel casellario giudiziario. La Corte ha anche ribadito che le misure disposte dai tribunali in base alle norme interne erano assimilabili all’esercizio di poteri disciplinari piuttosto che all’irrogazione di una “pena” per aver commesso un reato. Ma, le interessanti opinioni dissenzienti, tra cui quella del Presidente Spano, danno la misura di una decisione sofferta e, soprattutto, non condivisa, dalle pericolose conseguenze sul piano della tutela dei diritti fondamentali.
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