Pronunciandosi su un caso “russo” in cui si discuteva della legittimità della decisione delle autorità giudiziarie di disporre l’espulsione di un cittadino polacco, di madre russa, con divieto di far rientro in Russia per la durata di otto anni, in quanto ritenuto pericoloso per l’ordine e la sicurezza pubblica, avendo riportato una condanna per il reato di lesioni personali volontarie, la Corte di Strasburgo ha escluso, sebbene a maggioranza (4 voti a 3), che il provvedimento avesse violato l’art. 8 della Convenzione EDU. La Corte (sentenza 17 dicembre 2019 n. 2967/12) ha rilevato in particolare che il divieto di rientro per una durata così lunga era giustificato dalla gravità del reato commesso, nè trovava ostacoli nel fatto che l’espulso avesse la propria madre in Russia e che pertanto per un periodo così lungo non avrebbe potuto vederla, in quanto non si trattava di un minore ma di un adulto maggiorenne (all’epoca dell’espulsione trentunenne), non rilevando il fatto che egli fosse cresciuto in Russia e lì avesse studiato a lungo. I legami con la famiglia di origine, nella specie con la madre, non potevano infatti ritenersi così “forti” da potersi ritenere violato il diritto alla vita familiare di cui all’art. 8 della Convenzione EDU. Le autorità giudiziarie, del resto, avevano valutato tutti gli aspetti e, per la Corte EDU, avevano assicurato il giusto equilibrio tra i contrapposti interessi in gioco.
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