Pronunciandosi su un caso “cipriota” in cui si discuteva della legittimità della condanna inflitta al ricorrente per diffamazione, inflitta dalla Corte Suprema sovvertendo l’esito favorevole al ricorrente in primo grado, la Corte EDU, ha confermato, all’unanimità (sentenza 26 maggio 2020 (n. 48781/12), che vi fosse stata la violazione dell’articolo 6 § 1 (diritto a un processo equo) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, escludendo invece la violazione dell’art. 10 della Convenzione per il mancato esaurimento dei rimedi interni. Il ricorrente, in particolare, sosteneva che ad uno dei giudici della Corte Suprema che lo aveva giudicato nel processo intentato nei suoi confronti per diffamazione era mancata l’imparzialità perché il figlio del giudice aveva lavorato in uno studio legale il cui socio fondatore aveva rappresentato l’autore del ricorso contro di lui. La Corte di Strasburgo ha rilevato, in particolare, che se i giudici non sono automaticamente obbligati ad astenersi in tali circostanze, l’esistenza di tali rapporti familiari dovrebbe comunque essere rivelata all’inizio della procedura. Tuttavia, è stato solo dopo aver perso l’appello che il ricorrente aveva appreso di questo legame tra il figlio del giudice e lo studio legale che aveva rappresentato il politico durante il procedimento per diffamazione. Questa situazione, per i giudici di Strasburgo, ha dato origine a un’apparenza di parzialità e i dubbi che essa ha determinato in capo al ricorrente, in merito all’imparzialità del giudice, erano obiettivamente giustificati.
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